Roma (NEV), 17 agosto 2024 – L’ampia e crescente risonanza della notizia della sua morte è un segno tangibile di quanto Paolo Ricca fosse non solo noto e stimato, ma anche amato. Quante volte, nei contesti più diversi, in Italia, come in Germania o in Svizzera o in Francia o negli Stati Uniti, ci siamo sentiti dire, e dagli interlocutori più diversi: “Ho conosciuto Paolo Ricca”, e spesso “Come sta Paolo Ricca?”. Il protestantesimo italiano, in primis quello delle chiese riunite nella Federazione, ha per decenni avuto in lui un esponente autorevole, in ambito ecumenico, nelle relazioni con le chiese sorelle, nello spazio pubblico.
L’incontro con lui come oratore o predicatore, come docente o come membro di un gruppo di lavoro, perfino se episodico, lasciava sempre una traccia e, se seguito da un colloquio, spesso faceva nascere un legame, al quale non si sottraeva, spesso coltivandolo con la corrispondenza o il telefono. Era difficile che rifiutasse un invito, anche sapendo che avrebbe dovuto affrontare la fatica di un viaggio o che lo avrebbe atteso un uditorio esiguo. Questa disponibilità lo ha caratterizzato fino agli ultimi giorni della sua vita.
Sapeva costruire ponti, ispirando simpatia e generando fiducia. In ambito ecumenico, anche con interlocuzioni che altri avrebbe ritenuto impossibili, lo guidava la convinzione che la fede comune, seppur vissuta in forme diverse e a volte dissonanti se non dissenzienti, dovesse per sua natura condurre all’incontro e aprirsi al dialogo, che non si alimentava con abili strategie o accorte mediazioni, ma consisteva in un passo in avanti verso l’unico Signore che tutti ci chiama. L’incontro non è a metà strada dalle nostre posizioni attuali, ma più avanti. Per le piccole realtà protestanti ed evangeliche in Italia; per le più o meno grandi denominazioni protestanti in Europa o oltre Oceano, per il rapporto con il cattolicesimo romano.
Forse traspare di meno, vista l’imponenza della sua opera di oratore e di scrittore fecondo e dalla prosa di illuminante chiarezza e di grande vigore – come del resto i suoi discorsi, dalle lezioni accademiche alle conferenze – ma Paolo Ricca è stato un uomo di visioni e progetti. Era convinto che quando si hanno posizioni di responsabilità nella chiesa, non basta gestire al meglio l’esistente, bene operare con quel che c’è, bisogna avere “un progetto”, individuare ciò che manca e cercare di costruire, sensibilizzando e mobilitando chi può sostenere l’idea, affrontando le obiezioni di chi per prima cosa vede gli ostacoli.
In una vita poliedrica come la sua e vissuta con intensità in ogni sua dimensione è difficile attribuire più peso a un aspetto, ma certamente non si poteva non essere colpiti dalla sua passione per la predicazione, cioè per “dire Dio” in pubblico, parlare di Dio – e non in primo luogo di morale, di saggezza – ascoltando e ridicendo ciò che Dio dice lui, attraverso le parole della Scrittura. Ogni testo era per lui da scavare, per poi dire non l’impressione che ci ha fatto, ma ridire ciò che abbiamo udito nel corpo a corpo con una parola che viene da fuori di noi. Si trattava per lui di parlare di Dio nell’attesa fiduciosa che Dio parli e parli a noi, per noi, come aveva imparato dal suo amato Lutero. Parlare di Dio senza eludere nessuna domanda, anche scomoda, senza sottrarsi a nessuna inquietudine, a nessun dubbio, a nessuna sfida …
La sua vita è stata una continua e appassionata interlocuzione su Dio, davanti a Dio, sapendo che si può contare sul fatto che Dio parla. Credo che Paolo Ricca non mi redarguirebbe se riassumessi la passione che ha mosso tutta la sua poliedrica attività e il fine che si prefiggeva, con il termine “predicazione”. Che si trattasse di sondare la storia della chiesa o i grandi temi della teologia, che si trattasse di approfondimenti accademici o di divulgazione, di ecumenismo o impegno civile, di cura d’anime o di prendere sul serio interrogativi critici, il motore e lo scopo erano sempre l’ascolto del Dio che parla e del quale perciò possiamo, anzi dobbiamo, parlare.
Nella tristezza per la sua scomparsa, si scopre la gratitudine per quello che ci ha dato e insegnato. Una cospicua eredità, ma anche una grande responsabilità.
Daniele Garrone, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI)