Alì vittima di frontiera

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope, il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dall’Osservatorio di Lampedusa, ed è a firma di Tommaso Tamburello

Lampedusa (NEV), 24 gennaio 2018 – Le notizie che arrivano in questi giorni dalla Tunisia ci raccontano di un Paese in agitazione. Molte città, soprattutto quelle più periferiche, sono state teatro di violenti scontri, disordini e proteste popolari. In seguito alla repressione della polizia si sono registrati numerosi feriti e centinaia di arresti, e a Tebourba durante il caos è morto un uomo di 40 anni. Migliaia di giovani sono scesi in piazza per protestare contro il carovita e i rincari di generi di consumo, annunciati il primo gennaio dal governo insieme ad altre misure di austerity inserite nella nuova legge di bilancio. Le contestate riforme strutturali economiche sono il frutto dei vincoli imposti dal Fondo Monetario Internazionale, che ha preteso rassicurazioni dal governo tunisino per far fronte al maxi-prestito da 2.9 miliardi di dollari destinato alla ripresa economica, calando dall’alto i suoi diktat di privatizzazioni e liberalizzazioni. Le misure hanno inciso sull’aumento dei prezzi di tanti beni di prima e seconda necessità – fra cui la farina del pane – accendendo la miccia della rivolta in un Paese in cui le fasce più povere erano già sull’orlo dell’esasperazione.

La Tunisia vive dal 2015 una grave stagnazione della ripresa economica, condizionata dagli attentati terroristici di matrice islamica che hanno compromesso fortemente il settore turistico, una delle principali risorse del Paese. La popolazione soffre di un livello di disoccupazione elevatissimo, soprattutto giovanile, e vive rabbia e rancore a fronte delle mancate promesse della Rivoluzione del 2011. È gennaio, e – a distanza di 7 anni esatti dallo scoppio dei tumulti popolari che hanno portato alla Rivoluzione dei Gelsomini – sembra di vivere un déja-vu, osservando la concatenazione di eventi e il crescendo della tensione che si respira nelle città tunisine. Come nel 2011, Lampedusa sembra legarsi indissolubilmente alle vicende della Tunisia e ai movimenti migratori che ne sono conseguenza, registrando l’arrivo di circa 4000 tunisini sulle sue coste da agosto ad oggi. Con le orecchie ben tese a ciò che accade sull’altra sponda del Mediterraneo, i consistenti sbarchi della scorsa settimana – 200 persone – ci lasciano pensare che i flussi potrebbero riprendere con grande intensità nei prossimi tempi.

Abbiamo già raccontato i pensieri, le difficoltà e i disagi che vivono i giovani tunisini ospiti dell’hotspot di Lampedusa, in balia degli accordi bilaterali Italia/Tunisia che permettono un certo numero di rimpatri forzati ogni mese. La loro permanenza sull’isola varia da tempi relativamente brevi – una settimana – a lunghe ed estenuanti attese che si possono protrarre in alcuni casi anche a due/tre mesi, vivendo così le giornate e le settimane nell’incertezza, oscillando su un’altalena di emozioni che vanno dalla speranza di estrarre il biglietto giusto dall’urna – quello del traghetto per Porto Empedocle, con successivo foglio di via – all’angoscia di estrarre invece il ticket sbagliato dalla lotteria dei rimpatri, quello che garantisce un posto sull’aereo che li riporta dritti all’aeroporto di Tunisi, via Palermo.

Nei mesi passati siamo stati testimoni della tensione generata da questa situazione e di come essa sia sfociata in proteste di vario tipo: pacifiche, come nel caso degli scioperi della fame di fine ottobre, o violente, come nel caso di qualche giorno fa, quando una rissa all’interno del centro è sfociata in una sassaiola nei confronti delle forze dell’ordine.

Questa condizione di costante incertezza sui loro destini è fattore di enorme stress e abbiamo assistito con i nostri occhi alle diverse reazioni psico-fisiche che la accompagnano, chi perdendo peso a vista d’occhio e chi scoppiando in crisi di pianto e di nervi. Come spesso avviene nelle situazioni concentrazionarie, si sono verificate anche risse fra loro per futili motivi. La pressione psicologica data da tutto ciò può comportare forti criticità per quei soggetti particolarmente fragili, con conseguenze dall’esito drammatico. È stato il caso, purtroppo, di Alì, un ragazzo di trent’anni trovato impiccato il 5 gennaio in una casetta di cemento a pochi passi dall’hotspot.

I suoi compagni di viaggio lo descrivono come una persona semplice, tranquilla ed educata. In Tunisia – dicono – non aveva un lavoro, come la gran parte dei giovani; era una persona riservata e spesso trascorreva le sue giornate al bar a bere caffè con i suoi pochi, ma buoni amici.

Sei anni fa riuscì ad arrivare a Nantes, in Francia, dove conviveva con una ragazza francese e dove lavorava, senza mai però riuscire ad ottenere i documenti. Dopo qualche tempo viene rimpatriato in Tunisia e dopo due anni si rimette in viaggio verso l’Italia, sbarcando il 30 ottobre a Lampedusa.

Dopo due mesi di permanenza sull’isola Alì inizia a manifestare segni di disagio psichico: chiede di poter dormire in una stanza tutta per sé, si sveglia diverse volte nel corso della notte e parla da solo, comportamenti questi che destano preoccupazione fra i suoi amici che ne segnalano la condizione agli operatori del centro. Successivamente sembrerebbe che Alì abbia manifestato agli operatori la sua insofferenza per la permanenza prolungata sull’isola, esprimendo la volontà di andare via da Lampedusa ad ogni costo ed accettando addirittura anche un eventuale rimpatrio in Tunisia.

Il suo grido di aiuto non è servito a salvargli la vita; ha iniziato a non tornare più al centro e a dormire in una macchina abbandonata nelle campagne circostanti l’hotspot, dove ha trascorso i suoi ultimi giorni in solitudine, con l’unica compagnia di quelle voci che risuonavano nella sua testa.

La disperazione, il senso di vuoto e lo scoraggiamento erano tali che Alì ha deciso di compiere il gesto estremo, uccidendosi.

Questo triste evento ci porta a riflettere ancora una volta sulla gestione emergenziale dei flussi migratori che viene applicata in un contesto particolare come quello lampedusano; un contesto «isolato», per l’appunto, dove l’assistenza sanitaria è carente sia del personale necessario a far fronte alle esigenze di tutta la comunità – non solo degli ospiti del centro – sia della disponibilità dei farmaci, la quale è condizionata dalla lentezza dei rifornimenti via mare, che durante la stagione invernale subiscono lunghi ritardi.

A prescindere da quale fosse stata la condizione clinica di Alì antecedente al suo arrivo a Lampedusa, si può senza dubbio affermare che in un contesto di accoglienza più strutturato e funzionale, privo delle criticità e delle contraddizioni di Lampedusa, il ragazzo sarebbe forse stato seguito con più attenzione ed efficienza, e si sarebbe forse potuta evitare l’ennesima morte legata alle dinamiche della frontiera.