Ius culturae. Ultimo appello

Pubblichiamo l'intervento di Paolo Naso andato in onda domenica 6 ottobre, su Radio1 RAI per la rubrica "Essere chiesa insieme" della trasmissione Culto Evangelico. L'autore è coordinatore del Programma rifugiati e migranti - Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia

Roma (NEV), 9 ottobre 2019 – Nei giorni scorsi si è riacceso il dibattito pubblico sullo ius culturae, una legge che, col vezzo del latinorum, dovrebbe garantire il diritto di cittadinanza ai giovani figli di immigrati. Non lo ius soli – quel diritto del suolo in base al quale ottiene la cittadinanza chiunque sia nato nel territorio della nazione, come ad esempio accade negli USA – ma pur sempre una misura utile a integrare decine di migliaia di ragazze e ragazzi italiani a tutti gli effetti.

Ma dopo un solenne annuncio che lasciava intendere che sul tema c’era un’intesa, almeno all’interno della nuova maggioranza di governo, il tema è stato ben presto criticato: “Prematuro”, “rischioso”, “controverso”, e così le speranze di tanti giovani già integrati a tutti gli effetti nella società italiana rischiano di andare nuovamente deluse. Era già successo nel 2017, alla fine della scorsa legislatura, quando la maggioranza di centro sinistra ritenne più prudente far decadere il provvedimento piuttosto che rischiare il voto contrario dell’aula. E così, per timidezza e calcolo politico, un lungo processo avviato anche grazie all’impegno delle associazioni dei giovani immigrati di “seconda generazione”, di varie espressioni della società civile e delle stesse chiese evangeliche, andò in fumo.

Con questi precedenti, questo è l’ultimo appello al principio di inclusione democratica dei giovani immigrati. Il provvedimento è al vaglio della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati e, al momento, non è detto che possa andare definitivamente in porto. Molti i dubbi, le riserve, le perplessità nei confronti di una legge che garantirebbe la cittadinanza ad almeno una parte dei figli degli immigrati: non quelli semplicemente nati Italia – lo ius soli puro – ma coloro che hanno concluso almeno un ciclo di studi in Italia, ius culturae, appunto. Questa via alla cittadinanza non è un meccanismo automatico ma la conclusione di un processo di formazione e di identificazione nei principi costituzionali.

Questa impostazione è ragionevole e, se tradotta in legge, avvicinerebbe l’Italia a paesi come Francia, Germania e Regno unito nei quali norme analoghe vigono da decenni senza che questo abbia prodotto squilibri sul piano sociale o politico.

Da tempo le chiese evangeliche italiane affermano l’urgenza di un provvedimento di questo genere.

Lo fanno per almeno tre motivi.

Il primo è che sono convinte che una società che non dia rappresentanza civile a chi studia, lavora, fa impresa in mezzo a noi, è una democrazia limitata e pericolosamente segnata da un privilegio di stirpe che, di fronte alla mobilità moderna, appare obsoleto e persino pericoloso. Che senso ha garantire il voto a un oriundo italiano che magari manca da decenni dal suo paese e negarlo, invece, al giovane figlio di immigrati che sogna di fare il carabiniere o il magistrato?

Il secondo motivo è che sono convinte che, insieme ai loro coetanei italiani, i giovani immigrati cresciuti in Italia costituiscano un prezioso patrimonio umano e sociale, un capitale di idee, energie e speranze di cui la nostra società, in palese declino demografico, ha un grande e urgente bisogno.

Infine le chiese evangeliche affermano il valore della cittadinanza perché credono nel valore di una società coesa, unita attorno a un patto di civile a i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. Da decenni migliaia di immigrati africani, asiatici e latinoamericani sono entrati a far parte di chiese evangeliche italiane, contribuendo alla loro crescita e alla loro rivitalizzazione. Ed oggi l’evangelismo italiano è plurilingue, multietnico e interculturale. Percorrere questa strada non è stato facile ma oggi questo esperimento può considerarsi consolidato e ci fa vedere le potenzialità di una società che accoglie, integra e include. Anche grazie a un passaporto.