Codice deontologico. Regole condivise per orientarsi nell’esercizio del proprio ministero

Intervista al pastore Daniele Bouchard sul documento di auto regolamentazione per pastori e diaconi approvato dall'ultimo Sinodo delle chiese metodiste e valdesi

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Roma (NEV), 11 ottobre 2019 – Nel corso dell’ultimo Sinodo delle chiese metodiste e valdesi (25-30 agosto 2019), dopo che il tema era stato analizzato e dibattuto nelle chiese da moltissimo tempo, è stato approvato dall’assemblea degli iscritti nel ruolo il Codice deontologico, un documento di auto regolamentazione per pastori e diaconi per la gestione di relazioni, comunicazioni e formazione permanente.

Il documento, disponibile sul sito www.chiesavaldese.org, è stato redatto dalla commissione del Corpo pastorale per la deontologia e fa riferimento a codici di Chiese sorelle ricollegandosi anche a un documento già approvato dal Sinodo, le Linee guida per la tutela dei minori e la prevenzione degli abusi.

L’Agenzia NEV ha sentito il pastore Daniele Bouchard.

Perché è sorta l’esigenza di dotarsi di un Codice deontologico?

Come per molte professioni, anche per pastori, pastore, diaconi e diacone delle chiese valdesi e metodiste è sorta l’esigenza di alcune regole condivise che aiutino le singole persone a orientarsi nell’esercizio del proprio ministero; non tutto può essere disciplinato dai regolamenti, ma anche il ricorso al buon senso ha dei limiti. Il codice, per il suo carattere pubblico e per la possibilità di comminare sanzioni a chi non lo rispetta, aiuta inoltre a tutelare la credibilità dei ministeri pastorale e diaconale e le persone che li svolgono.

Quali sono i punti salienti del codice?

Il punto 1 riassume bene l’obiettivo del codice: “Le relazioni che si stabiliscono nell’esercizio del ministero sono improntate al rispetto della dignità della persona, evitando tutte le condotte che possano risultarne lesive”. Sono dunque richiesti rispetto, correttezza e riserbo nelle relazioni personali, ma anche in quelle istituzionali e sui social media. Si raccomanda inoltre attenzione al rapporto tra vita privata e ministero, salvaguardando l’una e l’altro ma anche tenendo conto dell’inevitabile riflesso dell’una sull’altro.

Il codice richiama ad attenersi alle Linee guida per la tutela dei minori e la prevenzione dell’abuso in caso relazioni d’aiuto instaurate con una persona minorenne. Qual è la sensibilità della chiesa su questi temi?

E’ un tema relativamente nuovo, di cui abbiamo cominciato da qualche anno ad occuparci e quindi la sensibilità è in crescita, ma abbiamo bisogno di approfondire la materia e maturare conoscenze a abitudini all’altezza della situazione. Ci aiuta il fatto di avere nelle nostre chiese persone competenti con esperienza nel campo; si tratta di valorizzarle per la maturazione collettiva.

L’Atto 113 del Sinodo invita le chiese a vegliare sui ‘peccati di genere’ ricordando gli strumenti offerti dalle ‘Linee guida sulla tutela dei minori’, dal Codice deontologico degli iscritti/e a ruolo e dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne. Cosa sono i peccati di genere?

L’espressione peccati di genere parte dal concetto di violenza di genere per definirla come peccato. Con violenza di genere, come è noto, si intende quell’ampia realtà di violenza personale, sociale, istituzionale, culturale, economica ecc. che deriva dalla storia patriarcale della nostra società, che ha previsto da sempre un dominio degli uomini sulle donne, su bambine e bambini e anche sugli altri uomini, dominio per sua natura violento, in forma talvolta aperta, talvolta nascosta.

Vegliare sui peccati di genere significa quindi innanzitutto riconoscere che la violenza di genere esiste e in secondo luogo affermare che essa è peccato. Significa rendersi conto che questa violenza avviene quotidianamente intorno a noi e che noi, sia come singoli credenti che come chiese, non ne siamo esenti. Si tratta di imparare a riconoscere la violenza di genere, a nominarla, ad accompagnare chi ne è vittima, ma anche chi la compie, nella prospettiva del suo superamento. Affermare che la violenza di genere è peccato significa dichiarare che è contro la volontà di Dio e che combatterla fa parte del compito delle e dei credenti, attraverso l’impegno perché la violenza cessi, ma anche attraverso la richiesta di perdono per la propria connivenza, attiva o passiva, con essa. Negli ultimi anni hanno cominciato a nascere iniziative in questo senso anche nelle chiese valdesi e metodiste. L’atto del Sinodo ci incoraggia a proseguire con sempre maggior impegno; non sarà un’impresa di breve durata, ma credo che non possiamo più sottrarci ad essa.