Giustizia carceraria e stop tortura nel mondo. Un impegno cristiano

Intervista al presidente dell’Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura (ACAT), Massimo Corti, alla vigilia del suo saluto al bureau international della Federazione internazionale

Roma (NEV), 15 maggio 2020 – L’Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura (ACAT) è un organismo che opera su basi ecumeniche insieme a protestanti, cattolici, ortodossi e altre confessioni cristiane.

L’agenzia NEV ha intervistato il suo presidente, Massimo Corti, che fra l’altro è membro uscente del Direttivo del bureau international della Federazione internazionale delle ACAT (FIACAT), le cui cariche si stanno rinnovando proprio in questi giorni.

La FIACAT nasce nel 1987, anche grazie al contributo di ACAT Italia, fondata formalmente nello stesso anno. Oggi FIACAT è una ONG internazionale con sedi in circa 30 Paesi, principalmente in Europa e in Africa.

“Siamo stati i primi a mettere intorno a un tavolo l’ONU e la Commissione europea – racconta all’agenzia NEV Massimo Corti –, cosa che fino ad allora non si era mai fatta”. Abbiamo rivolto al presidente ACAT alcune domande.

Di cosa si occupano in particolare le ACAT nel continente africano?

ACAT in Africa ha due grandi progetti, uno sulla pena di morte e l’altro sulla detenzione preventiva abusiva. Ci sono persone messe in galera senza che partano istruttorie o pratiche di registrazione. La gestione delle carceri in certi paesi è disastrosa, con migliaia di persone recluse ingiustamente o che sono private della libertà per il doppio del tempo di quello che sarebbe stato comminato per una eventuale condanna, se fossero stati condannati. La situazione è talmente paradossale che centinaia di condannati sono felici perché almeno hanno chiaro un inizio pena e un fine pena. Chi non ha una condanna sta in carcere non si sa per quanto tempo.

In quali paesi, in particolare, è attivo il progetto sulla detenzione abusiva?

Questo progetto è operativo in 5 paesi sub sahariani: Costa d’Avorio, Congo Brazzaville, Ciad, Repubblica democratica del Congo e Madagascar, con risultati incoraggianti.

Funziona bene in luoghi dove la struttura sociale è meno “gerarchica”, dove è facile avere insieme in un convegno presidenti, ministri, giudici istruttori, avvocati, direttori di carceri, personale penitenziario e società civile, insomma tutti i soggetti coinvolti nei processi giudiziari.

Come si svolgono le vostre azioni per la giustizia carceraria?

I progetti lavorano attraverso la realizzazione di varie sessioni di approfondimento e dibattito con tutti i soggetti. Prima insieme, poi a sessioni divise per categorie, poi attraverso la richiesta e l’ottenimento di permessi per visitare le prigioni. Quindi vengono fatte delle interviste, carcerato per carcerato, e stilati degli elenchi di persone che vengono messi a disposizione delle amministrazioni. Si scoprono casi di persone la cui presenza in carcere non era registrata da nessuna parte. A quel punto avvocati incaricati contattano le autorità giudiziarie.

Come si conclude tutto l’iter?

Con migliaia di scarcerazioni e centinaia di processi avviati.

Chi lavora nelle ACAT locali per questo tipo di operazioni?

Ci sono volontari, operatori, e a volte vengono coinvolti esperti delle ACAT internazionali, soprattutto per i seminari iniziali. Il contatto diretto con i territori fa sì che possiamo dare garanzie per i finanziatori e anche affinché le risorse e il sistema di sviluppo siano di aiuto per le comunità destinatarie, che in certi casi costruiscono raccolte fondi in loco, avvalendosi di donazioni, anche di singoli cittadini. Questo sistema favorisce una garanzia sui conti, ma soprattutto un’occasione di sviluppo che ha il grande risultato dell’autonomia.

In che modo la FIACAT contribuisce all’abolizione della pena di morte, come avvenuto recentemente in Ciad?

Quello sull’abolizione della pena di morte è un altro progetto ACAT che si basa sulla diffusione e sensibilizzazione di tutte le realtà sociali: istituzioni, autorità, opinione pubblica, giornalisti. In Ciad era stata abolita la pena di morte già nel 2017, ma era rimasta per i reati di terrorismo. Quest’anno si è perfezionata l’abolizione, che ora è estesa a tutti i reati.

Quali risultati avete potuto registrare per quanto riguarda l’abolizione della pena di morte in Africa?

In Congo e Madagascar la pena di morte è stata abolita nel 2015, in Burkina Faso e Benin nel 2018, in Guinea nel 2016 per i delitti comuni e nel 2017 anche per i delitti militari. In queste occasioni alcuni paesi hanno cambiato il loro codice penale o civile, o la costituzione, iniziando o completando revisioni del sistema normativo.

Si tratta di un lento ma continuo processo, che è possibile anche grazie ad altri organismi, fra cui la Coalizione mondiale contro la pena di morte (WCADP) e la Commissione africana per i diritti degli esseri umani e dei popoli, all’interno dei quali la FIACAT è presente.

Insieme ai vostri partner, quali altri modalità di intervento proponete?

I progetti FIACAT e delle ACAT locali si appoggiano anche ad altre strutture e movimenti. Organizziamo insieme appelli, diversi tipi di azioni concrete, ma anche feste, incontri, redazione di articoli.

Ci sono novità sul caso Patrick Zaki?

L’ultima novità risale a tre giorni fa, ed è il rinvio di altri quindici giorni della detenzione preventiva. Il processo va a rilento, con la scusa o a causa dell’emergenza coronavirus. Insomma al momento è tutto inalterato.

Chi sono i sostenitori di ACAT?

Le ACAT in Africa crescono, mentre in Europa sono più statiche, e questo è il primo dato. I problemi sono diversi e non c’è più, da questa parte del Mediterraneo, quello spirito che avevamo negli anni ’50. Oggi c’è una scarsa partecipazione.

In Italia proseguiamo le attività grazie al sostegno di Rinascita cristiana e di altri enti sostenitori. Dal 2008 abbiamo istituito un Premio di laurea per tesi sul tema della tortura e della pena di morte con il sostegno dell’8×1000 delle chiese metodiste e valdesi. Poi c’è il contributo di singole persone, singoli membri associati. E spesso ci appoggiamo a un convento di suore, che ci aiutano.

Idee per il futuro?

Le idee sono tante, ci piacerebbe avere una piattaforma che ospiti più dibattiti, a poi organizzare un caffè letterario. Ci sono attività che per il covid-19 sono ancora nel cassetto, o temporaneamente sospese, come gli incontri nelle scuole in cui proponiamo giochi, quiz e approfondimenti, in collaborazione con Antigone per le carceri e Medici contro la tortura.

Come si può contribuire alle vostre azioni?

Molto semplice. Con la diffusione e la divulgazione delle nostre attività, con le iscrizioni, registrandosi alla newsletter, con l’adesione agli appelli mensili per casi concreti su problemi carcerari, rilanciandoli, ma anche con lettere, mail, raccogliendo firme.

E poi partecipando. Ad esempio, due o tre volte all’anno facciamo delle riunioni di preghiera, quindi si può partecipare e invitare a partecipare. Infine, abbiamo una pagina Facebook interattiva con aggiornamenti quotidiani che si possono condividere e commentare. Sul nostro sito, infine, c’è la possibilità di contribuire con donazioni.