Lampedusa, l’emergenza è altrove

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto da Francesco Piobbichi

Roma (NEV), 24 maggio 2021 – In questi giorni ho fatto molte interviste televisive e parlato con diversi giornalisti/e a Lampedusa. Ho detto a tutti la stessa cosa. L’emergenza non è qui, l’emergenza è altrove. È in mezzo al mare, è in Libia. Quasi tutti loro sono rimasti colpiti dallo scarto che esiste tra la “calamita” mediatica che li ha attirati sul palcoscenico lampedusano e la realtà dei fatti che raccontavano.  Dover evitare di entrare dentro la “retorica scenica” dell’emergenza richiede lucidità e non è semplice. A Lampedusa tutto si presta per questo scopo, il molo, l’hot spot, le navi quarantena, la militarizzazione dell’isola. Lampedusa è la scenografia perfetta per il laboratorio della paura. Per accendere le luci basta qualche sbarco più consistente e poi si inizia a produrre significati. Il paradosso più grande e stato quello di capire che in queste ore si stava dicendo indirettamente che erano i vivi l’emergenza e non chi moriva in mare, non chi subiva violenza in Libia. Nei giorni seguenti l’emergenza sono morte 70 persone nel canale di Sicilia ma la notizia non è apparsa sui tg. Perché? Forse questa domanda avrebbero dovuto farsela le redazioni dei media, e lo sciame di giornalisti  che di colpo si è materializzato sull’isola. Rispondere a questa domanda forse ci permette di capire come mai le ambulanze del mare sono state bloccate. E forse, rispondere a questa domanda ci permette di capire cosa sia diventato il nostro continente. Due cose però vorrei dirle. La prima è ai lampedusani che dovrebbero fare sentire la voce della verità invece che assecondare la tragedia greca che recitano i politicanti pronti ad usare questo scoglio per le loro passerelle, speculandoci sopra. La seconda è al resto dei giornalisti sensibili che lavorano nel mercato della comunicazione. C’è bisogno di costruire un pensiero critico rispetto al lavoro che fate, un’alleanza esplicita nella quale si comincia a smontare la retorica dell’emergenza. Ho la convinzione infatti che caricare la “scena emergenziale” come avvenuto in questi giorni contribuirá semplicemente a far digerire all’opinione pubblica europea che l’unica soluzione sarà dare ancora più soldi alle milizie per attuare il blocco navale che è di fatto già operativo. Non credo nei complotti, e diffido di chi crea le proprie convinzioni su interpretazioni non oggettive. Penso che alla fine sia il mercato della notizia a creare il sistema giornalistico e la scena di fondo che ingigantisce i fatti, penso però che qualcuno in quelle ore In Libia sia stato felice per il potere di contrattazione che la “bolla dell’emergenza” gli abbia offerto.

Lampedusa e quello che accade ci permettono di comprendere come si attivano dinamiche comunicative su un terreno già precedentemente coltivato per questa funzione. È dal 2011 che si va avanti in questa maniera, tragedia dopo tragedia, emergenza dopo emergenza. Lasciate che questa isola possa tramandare il proprio racconto nel tempo, depositare le storie che l’attraversano che l’hanno segnata. Lasciamo che possa elaborare quanto gli accade senza sequestrare il suo racconto. Proviamo a rispettarla, senza violentarla più di quanto è stato fatto fino ad ora. Ringrazio invece tutti quei giornalisti che in questi giorni si sono messi in discussione, modificando il loro sguardo e riportando a casa un punto di vista diverso da quello col quale erano venuti sull’isola. Ringrazio chi invece di cercare ossessivamente le news ha trovato il tempo e il modo per raccontare le storie dei dimenticati e la vita normale di quest’isola. L’emergenza è nemica della democrazia, alimentarla non è giornalismo ma propaganda.