Olio, semi e spezie

di Silvia Turati, operatrice di Mediterranean Hope in Libano

Roma (NEV), 22 marzo 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “lo sguardo” proviene dal Libano, dai campi profughi da cui provengono i beneficiari dei “corridoi umanitari” promossi da FCEI, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio.

La bella Raneem si volta verso di me e sorride. Guardo i suoi capelli lunghissimi e biondi e provo a immaginarla quando, solo poco tempo prima, studiava a Raqqa. Da quando le milizie Isis avevano preso il controllo, lei vestiva col burqa. Nonostante la paura, usciva di casa e andava all’università. L’obiettivo della laurea era più forte dell’angoscia che le mettevano i check-point armati, fuori e dentro la città.

Guardo Thaer e nei suoi occhi rivedo Damasco. Se anche non sapessi da dove proviene, direi sicuramente da lì. Rivedo il suo negozietto di generi alimentari che gestiva da solo, in una delle vie del centro. Rivedo lui, tra i vecchi commercianti delle botteghe che popolano il suk della Damasco antica. Mi pare di sentire ancora gli odori delle spezie esposte tra quelle stradine strette, che pullulano di bancarelle e piccoli negozi, rivedo i garzoni che vendevano le pannocchie bollite e ricordo quel vecchino da cui compravo il succo di melograno. In mezzo a questa quotidianità che pulsa vita, immagino Thaer, uomo di mezza età, nella sua dukkaneh, indaffarato a riempiere le piccole buste di plastica nere con i prodotti acquistati dai clienti. Lo rivedo camminare tranquillo per le vie del centro, tenendo in mano una misbaha da sgranare.

Thaer ci ha raccontato che un tempo lui e la sua famiglia stavano bene, aveva lavorato sodo da giovane ed aveva assicurato un buon livello di vita ai suoi cari. Da un giorno all’altro, la grata della sua bottega non l’ha più sollevata. La guerra e la crisi economica inghiottirono a piccoli morsi la sua fortuna, quella che si costruisce negli anni con il sudore sulla fronte. Ogni volta che me lo raccontava, i suoi occhi si facevano cupi.

Mi siedo accanto a Nour, è così giovane… ricordo quando, seduti sui materassini della tenda di sua zia in un campo profughi della valle della Beqaa, aveva preso il cellulare e letto una poesia da lui composta. La stufa era accesa, la zia ci aveva circondato con tanti cuscini per stare comodi e intanto preparava il caffè. Per Nour, scrivere era l’unico modo per dare una forma al trauma vissuto. Quando sei un giovane studente la vita è bella: vai all’università, esci con i tuoi amici, vai a guardare la partita e a bere caffè in uno di quei barettini a Sarouja, nella città vecchia di Damasco. Ma un giorno una bomba cade sulla tua casa. Hai 21 anni e perdi tutto: tua madre, tuo padre e tutti i tuoi fratelli. Rimani solo, non esci più a Sarouja. Scappi in Libano e vivi in un campo profughi insieme a tanti altri disperati. Nour continua a leggere la sua poesia, e noi lo ascoltiamo in silenzio. Parla di una ragazza immaginaria che lui ama, al di là dei confini geografici, religiosi e culturali che li separano.

Raneem, Thaer e Nour sono tra le settantasette persone atterrate qualche settimana fa in Italia con i “corridoi umanitari”. All’aeroporto di Fiumicino li osservavo: in attesa che la polizia finisse le pratiche d’ingresso, ho incrociato gli sguardi delle persone che avevano viaggiato con noi. Nei loro occhi, un po’ stanchi e confusi, rivedevo le storie che alcune settimane prima ci avevano raccontato. Ora, quelle storie, mi sembravano già così lontane…

Al momento del decollo, quando l’aereo ha preso velocità, le ruote si sono ritirate dalla terra di Beirut e abbiamo cominciato lentamente a salire e volare, si è levato un forte applauso. Un applauso di libertà e liberazione verso un nuovo inizio, al di sopra delle catene che per parecchio tempo hanno tenuto prigioniere queste vite, impossibilitate a partire in maniera sicura, legale e dignitosa. Dentro ai loro bagagli grandi e pesanti c’era chi, oltre ai vestiti, si era portato le spezie. Qualcuno ci aveva addirittura messo una tanica d’olio d’oliva. Altri, con sé, hanno portato i semi di piante difficili da trovate in Italia, con il sogno di provare a coltivarli da un’altra parte.

Semi, spezie e olio che profumano di dignità. Dignità di cui sono piene le valigie di questi viaggiatori coraggiosi, pronti a piantare le loro radici in un luogo estraneo, con la speranza che la vita riprenda a vibrare come un tempo.